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Le produzioni del territorio

All’interno del sito UNESCO, il patrimonio dei saperi legati alla produzione vitivinicola e agricola in generale, ai prodotti tipici (vino, limoni, olio, pesce azzurro) e alle relative ricette gastronomiche sono un’importante testimonianza delle tradizioni locali, del modo di vivere delle popolazioni e rappresentano un’espressione concreta della cultura locale.

Limoni

La coltura dei limoni è presente sul territorio del sito UNESCO già dal Seicento. All'epoca conosciuti con il nome di citroni, oggi offrono una grande varietà di prodotti. Un alimento antico, simbolo del territorio, ha trovato qui un terreno e un clima favorevole, che permette una coltivazione senza l'uso di additivi chimici. Da questo "oro delle Cinque Terre" si ricavano marmellate, biscotti, crostate, dolci e il limoncino.

Miele delle Cinque Terre

Il miele delle Cinque Terre è la conseguenza di un ambiente naturale incontaminato caratterizzato dall'assenza di condizionamenti chimici e si inserisce in un'oasi naturalistica che nel tempo ha preservato intatte le caratteristiche di natura incontaminata: dai fiori dei declivi naturali a quelli delle storiche terrazze a picco sul mare. E' raccolto da fioriture spontanee o coltivate, rappresentate dalla tipica fioritura mediterranea con un'alta percentuale di fiori di erica.
Il contatto con il mar ligure e l'esposizione al sole durante tutto l'anno rendono questo miele veramente unico, come il paesaggio in cui viene raccolto, dove il mare si fonde alla montagna in poche centinaia di metri di ascesa. La complessità orografica ha portato nel tempo ad una varietà di microclimi con la conseguente diversificazione della vegetazione. I boschi di leccio sono stati in parte sostituiti con fasce coltivate o con altre essenze arboree quali il pino marittimo, il pino di Aleppo, sugheri e castagni. Negli ambienti litoranei crescono il finocchio di mare e il dauco marino vicino al cappero, in passato attivamente coltivato. Negli ambienti rupestri, accanto alla cineraria marina, il senecio bicolore, la ruta, ed altre varietà; nelle fessure più ampie della roccia si trovano l'euforbia arborea e numerose specie tipiche della macchia mediterranea. In tutta la zona sono diffusi arbusteti come rosmarino, timo, elicriso e lavandula. Macchia ad erica arborea e macchia mista, formata da lentisco, mirto, terebinto, ginestra spinosa, corbezzolo, fillirea e ginepro rosso, creano una boscaglia densa e intricata di liane, tra le quali la salsapariglia, la robbia, la fiammola, l'asparago, il caprifoglio etrusco e marino. La ricchezza della vegetazione delle Cinque Terre favorisce la produzione del miele di erica arborea, acacia, castagno e millefiori.

Olio extravergine di oliva

Questo olio, prodotto in quantità limitata, proviene dalla frangitura delle olive conferite dagli agricoltori residenti all'interno del territorio del Parco Nazionale delle Cinque Terre, nell’Isola Palmaria e nelle colline di Porto Venere. Mantiene tutte le caratteristiche organolettiche derivate dalle olive tradizionalmente coltivate sui terreni terrazzati, a picco sul mare delle Cinque Terre e rappresenta il risultato della tradizione secolare del territorio. Da usare a crudo come condimento o da gustare sul pane con un pizzico di sale e origano.

Acciughe salate di Monterosso

Prodotto agroalimentare tradizionale

Piatto tradizionale delle Cinque Terre, vengono lavorate secondo l'antica ricetta di Monterosso al Mare. Note come "pan du ma", le acciughe vengono pescate con il tradizionale metodo della lampara e con la rete a cianciolo e lavorate a mano nell'arco di due o tre giorni.
L'attenta disposizione a strati, un'adeguata pressatura e un accurato monitoraggio di quantità e qualità della salamoia, rendono le acciughe sode e gustose, garantendone anche la perfetta conservazione. Il prodotto così ottenuto mantiene tutto l'aroma e il sapore del pesce appena pescato. Da provare con olio, origano e aglio per un eccezionale antipasto ma anche ottimo come secondo piatto.

I 'muscoli' della Spezia

DOP - Denominazione di Origine Protetta

Tra i prodotti locali, emergono i muscoli spezzini, che, grazie ai fattori naturali, si sono sempre contraddistinti rispetto alle altre marinerie, in particolare quelli allevati nei vivai in prossimità della costa dell’Isola Palmaria e nella baia di Porto Venere, dove si trovano condizioni chimico-fisiche ottimali per l’allevamento.
La coltura dei muscoli viene effettuata in vivai che si presentano come aree costituite da pali sistemati a 5 mt. circa di distanza l’uno dall’altro, sporgenti per metri 1,50 sul livello del mare e piantati sul fondo.

Le ostriche verdi di Porto Venere

Di un verde brillante, traslucido, rapinoso. Profumatissime al naso, sapide e suadenti in bocca. Eppure naturali, salubri, incontaminate e benefiche per l'ambiente, vere eco-fighters in miniatura. Ad allevarle - o coltivarle, dipende dai punti di vista - un gruppo di indomiti mitilicoltori del golfo di La Spezia reso celebre nell'800 perché amatissimo da Shelley e Byron (da cui il nome Golfo dei Poeti). Ma il borgo di Portovenere, incastonato tra il porto spezzino e le Cinque Terre, non ha affascinato solo i cuori tormentati dei poeti inglesi, se è vero che scienziati del calibro di Lazzaro Spallanzani lo scelsero come meta di studio naturalistico, tra mare e macchia mediterranea. Il primo a esaltare la qualità delle ostriche locali fu il biologo svizzero Arturo Issel, secondo il quale lo status di bacino chiuso, la presenza di polle sottomarine di acqua dolce e l'afflusso di piccoli corsi d'acqua pura si attagliavano perfettamente alle esigenze della mitilicoltura. Parere suffragato da un altro biologo italiano, Davide Carazzi, pronto a supportare l'iniziativa di un impresario del settore, il tarantino Emanuele Albano. Un passo dopo l'Unità d'Italia, cominciava così l'epopea delle ostriche di Portovenere. Issel e Carazzi furono buoni profeti: le prime cooperative nacquero all'inizio del ventesimo secolo, e prima della seconda guerra mondiale più di trecento famiglie portovenerine erano impegnate nell'ostricoltura. Un esempio di microeconomia locale virtuosa in espansione ridotto ai minimi termini nel 1973 dall'esplosione dello scandalo dei mitili campani inquinati, quando il terrore del vibrione del colera azzerò il consumo di molluschi in tutta Italia. Quattro anni dopo, la legge 192 impose l'obbligo di stabulazione-depurazione e cominciò la lenta ricostruzione del rapporto fiduciario tra cittadini e mitilicoltura, a lungo delegato alla produzione francese. Ci sono voluti trent'anni prima che l'Osservatorio Ligure Pesca & Ambiente avviasse la sperimentazione dell'ostricoltura, sulla scorta di quanto continuava a prosperare liberamente tra le onde del Golfo dei Poeti, e altri dieci prima di cominciare la commercializzazione. Il primo a crederci è stato un appassionato studente di biologia marina, Paolo Varrella, oggi vice presidente della Cooperativa Mitilicoltori Associati del Golfo, con settanta soci di cui due terzi dediti ad entrambi gli allevamenti, ostriche e mitili. È lui a raccontare i segreti delle ostriche verdi, "differenti da tutte le altre - sia concave, sia piatte - perché si cibano quasi esclusivamente del phytoplancton locale, che regala sfumature verdi, impronta profumata e spiccata sapidità. Per dare colore, nelle claires - gli stabulatori francesi - seminano la Navicula Blue, a noi vengono naturali". Belle, buone e salubri: "Nel Golfo dei Poeti arriviamo al 39 per mille di salinità in estate, e non scendiamo mai sotto quota 37: una concentrazione che si traduce in sapore e ha funzione disinfettante. In più, qui le ostriche crescono senza mangimi e non ci sono deiezioni. Facciamo controlli continui: ostriche e cozze risultano ampiamente sotto i limiti di legge per quantità di batteri addirittura prima del processo di stabulazione, come dire che si potrebbero mangiare appena tolte dal mare come si faceva una volta... Per questo abbiamo ideato la parola 'merroir', che definisce il nostro privilegiato terroir marino". Non basta: il professor Pane di Genova sta per pubblicare uno studio che dimostra come le ostriche spezzine contengano un quarto di microplastiche rispetto a quelle oceaniche e la metà di quelle del Mediterraneo, perché il mare di Porto Venere è particolarmente limpido, c'è meno sedimento in sospensione e quindi meno microparticelle. Una messe di coincidenze benedette che si traducono in una produzione annua di quattrocento quintali (più trentamila quintali di cozze), con alberghi e locali di qualità in gara per inserirle in menù e degustazioni. Dulcis in fundo, le ostriche - tutte - rappresentano un mirabile esempio di riequilibrio ecologico. Per costruirsi il guscio, infatti, hanno bisogno del carbonato di calcio, che elaborano a partire dagli ioni di carbonato del mare. A sua volta,  l'acqua sottrae CO2 dall'atmosfera per ristabilire l'equilibrio dinamico. Il professor Giampietro Ravagna di Ca' Foscari sta per pubblicare uno studio che si basa su calcoli stechiometrici, da cui si evince come le ostriche assorbano metà del proprio peso in CO2 inglobata nel guscio, mentre gli altri molluschi ne assorbono intorno al 30%. Non a caso, la battaglia contro l'acidificazione degli oceani passa anche da progetti come l' "Oyster gardening", coltivazioni di ostriche (ovviamente non destinate all'alimentazione umana) impiantate nelle marine americane.

Sciacchetrà

Lo Sciacchetrà è un vino passito, dolce e liquoroso, prodotto nelle Cinque Terre dalle uve dei vitigni Bosco, Albarola e Vermentino. Se l'origine del nome sembra avvolta nel mistero - per alcuni deriva dal termine semitico "shekar" col quale, nella Palestina di 3.000 anni fa, venivano definite le bevande fermentate, per altri dal verbo dialettale "sciacàa", ossia "schiacciare", utilizzato in questo caso per indicare l'operazione di pigiatura dell'uva - certo è che il pregiato vino è divenuto l'emblema per eccellenza delle Cinque Terre.
Un profumo fruttato, floreale, che ricorda le essenze della macchia mediterranea: sentori di frutta secca, confettura d'albicocca, pesca gialla e vaniglia, miele di castagno e spezie. Un colore caldo e intenso: dal giallo dorato all'ambra, tendente al topazio. Un sapore dolce, ma mai stucchevole, caldo, di buon corpo, vellutato e suadente, ben equilibrato, da una piacevole e lievissima tannicità. Con una resa media di 25 litri per quintale d'uva - gli acini sono lasciati appassire al sole sino a novembre e vengono poi sgranati a mano per selezionare solo i migliori - e un'elevatissima qualità garantita dalla Denominazione di Origine Controllata (DOC dal 1973 come la tipologia secca), lo Sciacchetrà è un prodotto di nicchia che può evolvere per dieci, venti e anche trent'anni. Un vino amato da poeti e letterati. Ne parlarono Plinio, Boccaccio e Petrarca. Giosuè Carducci lo descrisse come "l'essenza di tutte le ebbrezze dionisiache", Giovanni Pascoli ne richiese l'invio di poche bottiglie "in nome della letteratura italiana", Gabriele D'annunzio lo descrisse come "profondamente sensuale". Comprendere fino in fondo un vino come lo Sciacchetrà significa, non solo assaporarne le qualità organolettiche ma anche apprezzarne tutto il bagaglio di conoscenze tradizionali legate alla cultura della terra. Vuol dire bere un vino in grado di ribadire ad ogni sorso una storia che parla del rapporto secolare e talvolta controverso tra l'uomo e la natura.

Vino DOC delle Cinque Terre

DOC - Denominazione di Origine Controllata

La millenaria coltura della vite ha rappresentato per il territorio delle Cinque Terre un elemento capace di modificarne in profondità la fisionomia. Nel passato infatti l'agricoltura, attività dominante nella zona, era rivolta soprattutto alla coltivazione della vite; limitatamente ad alcune zone si coltivavano olivi ed agrumi e, solo marginalmente, alcune porzioni di terreno erano destinate alle produzioni orticole. I tratti di terreno più alti erano coperti da boschi (come del resto ancora oggi), che fornivano frutti spontanei (soprattutto castagne), legname e foglie da interrare per fertilizzare il terreno coltivato a vigneto.
Le popolazioni delle Cinque Terre traevano il loro sostentamento principale dall'attività agricola, barattando con le popolazioni dell'entroterra i propri prodotti e cercando di vendere una parte del vino nelle vicine città della Spezia e Genova. Un sistema come questo non ha retto all'urto con lo sviluppo di un sistema industriale dominante nelle vicine località del litorale ligure, decretando così il declino della produzione vitivinicola, con conseguente degrado e dissesto ambientale.
Ad oggi, soprattutto dopo l'istituzione del Parco Nazionale, gli sforzi per recuperare la tradizione legata all'attività vitivinicola sulle terrazze delle Cinque Terre hanno dato buoni risultati nonostante i circa cento ettari coltivati oggi a vigneto non siano minimamente paragonabili ai 1.400 di un secolo fa.
A scoraggiare l'investimento di energie e risorse nella coltivazione della terra contribuisce il fatto che il territorio delle Cinque Terre risulta essere di difficile coltivazione soprattutto per la conformazione geo-morfologica del terreno che consente di avere superfici coltivabili molto strette; questo impedisce un'efficace meccanizzazione dell'attività agricola, con conseguente difficoltà per i coltivatori. Le monorotaie, importate dalla Svizzera solo a partire dagli anni Ottanta, sono le uniche macchine agricole utilizzabili.